Prendo spunto dalle riflessioni di Claudio Boniello (che potete leggere qui https://www.altroparlante.com/altracapri/164-l-anno-che-sta-arrivando-tra-un-anno-passera.html) e da altre interessanti considerazioni apparse in rete per fare qualche proposta in materia di lavoro. Non che mi inventi qualcosa di nuovo, si tratta di misure dettate dal buonsenso, che qui, per non annoiare il lettore, sono solo abbozzate e di cui spesso, anche in passato, si è discusso. Naturalmente tutte le idee che vi vado a raccontare riguardano la fantomatica fase 2, quella, per capirci, in cui potremo, con tutte le precauzioni del caso, uscire in strada.

Lavorare meno, lavorare tutti

Qui è necessaria un’analisi preliminare onesta rispetto al mercato del lavoro che abbiamo conosciuto fino alla stagione turistica 2019. Quel mercato del lavoro concentrato in un periodo di 6-8 mesi, con orari spesso superiori a quelli ordinari e retribuzioni allo stesso modo superiori rispetto a quelle fissate dalla contrattazione collettiva. Quel mercato del lavoro che si fondava, dunque, su uno scambio legittimo tra datori di lavoro e dipendenti: turni lunghi e concentrati in un ridotto lasso di tempo (non senza qualche esasperazione) contro retribuzioni più alte della media nazionale. Bene, per quest’anno dimentichiamoci questo meccanismo.

Potremo adottare tutti gli accorgimenti possibili o impossibili in materia di prevenzione del contagio; potremo sanificare locali e strade pure dieci volte al giorno; potremo inventarci in qualche modo il rispetto delle distanze tra individui, ma la domanda di turismo resterà fiacca. Chi si metterebbe in viaggio subito dopo la fine di una tempesta del genere? Sarebbe possibile aprire ai turisti stranieri, pur sapendo che nel mondo l’epidemia viaggia a velocità differenti e che quindi vi sono paesi che dopo la nostra riapertura saranno ancora nel pieno della battaglia?

Tutto questo si traduce con certezza in un calo della domanda. Al calo della domanda seguirà inevitabilmente un ridimensionamento dell’offerta turistica. Già si sentono in giro voci sinistre riguardo ad importanti realtà imprenditoriali che preferirebbero restare chiuse e saltare un turno. 

Ora consideriamo tutti quelli che in un modo o nell'altro risultano alle dipendenze del settore turistico largamente inteso. Se queste persone lavorassero allo stesso ritmo degli scorsi anni basterebbero forse la metà dei dipendenti del 2019 a coprire le ore di lavoro necessarie nel 2020. L’allontanamento dal lavoro di una quota importante dei dipendenti del settore turistico avrebbe conseguenze sociali gravissime. Esso finirebbe per aggravare le già prevedibili difficoltà economiche del sistema Capri. Chi resta senza stipendio non può, evidentemente, spendere i soldi che non ha.

Allora la proposta è questa: lavoriamo meno per far lavorare tutti. Che per il 2020 si torni alle previsioni della contrattazione collettiva: 40 ore di lavoro settimanali distribuite su cinque o sei giorni e come corrispettivo la retribuzione fissata dai contratti nazionali. Senza escludere la possibilità di ricorrere al part time. Lo so è una mazzata. Per molti significherebbe una riduzione significativa della paga. Però qui ne dobbiamo uscire tutti insieme. Agli imprenditori va chiesto, dove possibile, di tenere in massima considerazione il ruolo sociale delle loro aziende, tenendole aperte anche a rischio di guadagnarci ben poco. Allo stesso modo va riscoperta una sorta di solidarietà tra lavoratori: rinunciare a qualcosa perché un po’ tutti possano vivere dignitosamente in questo anno disgraziato.

Tornare ad imparare

Questa è una cosa che avremmo dovuto fare da un bel po’. Ora sembra che ne avremo il tempo. Il mercato pre-covid aveva il pregio di assorbire chiunque avesse voglia o bisogno di mettersi a lavorare. Però era anche causa di una serie di distorsioni. Qui me ne interessa in particolare una: un mercato siffatto ci ha illuso che bastasse trovare un impiego stagionale abbastanza redditizio per essere garantiti a vita. Questa idea non solo risulta errata alla prova del coronavirus, ma lo è sempre stata. I nostri nonni (ma anche i nostri genitori), che avevano certo a che fare con un turismo molto meno sviluppato, non si accontentavano mica di fare i barman o di essere buoni portieri d’albergo. A queste capacità “turistiche” ne affiancavano diverse altre e così si intendevano di pesca, di agricoltura, di manutenzioni e riparazioni varie. Dalla manualità di cui erano dotati sono spesso sorte attività artigianali che hanno fatto la loro fortuna e magari quella dei loro discendenti. 

Questo allora è il momento giusto per recuperare. Torniamo ad imparare come si fanno le cose, non solo come si vendono. Il connubio tra tecnologia ed agricoltura apre ovunque scenari inaspettati, mentre noi continuiamo a guardare al settore primario come a qualcosa di esclusivamente folkloristico. I vecchi mestieri si possono esercitare ormai in maniera innovativa ed anche redditizia. Un nuovo approccio alla manualità consentirebbe, sono certo, anche nuovi slanci di creatività. È il momento di organizzare corsi di formazione come non mai. Non lasciamo che il nostro residuo capitale di competenze vada sprecato. Con un serio investimento in formazione possiamo uscire da questo periodaccio più preparati e con un’offerta turistica più variegata ed affascinante, oltre che più sostenibile.

Uscita d’emergenza

Nel peggiore degli scenari possibili (che è pure abbastanza realistico ahimé) l’afflusso turistico di quest’anno sarà decimato. Potrebbe perciò capitare che neppure l’idea di cui al punto 1) basti a garantire lavoro per tutti. A questo punto dovrebbe necessariamente intervenire la mano pubblica.

A dire il vero quest’ultima è già abbastanza attiva nella fase emergenziale che stiamo vivendo, basti pensare ai lodevoli interventi riguardanti l’erogazione di buoni spesa o la distribuzione di generi di prima necessità. Se però le cose continuassero ad andare male dal punto di vista economico occorrerà passare da una logica prettamente assistenziale ad una logica di investimento. In quest’ottica i comuni potrebbero assegnare un sussidio mensile alle persone che intendano impegnarsi, per un certo periodo di tempo e per una quantità anche limitata di ore settimanali, in un’attività di pubblica utilità.

Le cose da fare non mancano, riporto solo qualche esempio: piccole riparazioni e manutenzioni del patrimonio pubblico e della rete viaria; cura del verde pubblico; pulizia delle parti del territorio più periferiche che vengono comprensibilmente trascurate in tempi normali; sanificazione periodica e capillare degli spazi pubblici; assistenza agli anziani che verosimilmente dovranno restare più a lungo in casa; valorizzazione di porzioni spesso poco considerate del nostro patrimonio culturale e naturalistico attraverso turni di guardiania e assistenza ai turisti. Alcune di queste attività potrebbero essere svolte in larga autonomia dai lavoratori, per altre sarebbero invece necessarie la direzione ed il controllo degli uffici competenti. Alla fine della fiera credo che ci troveremmo con un territorio mai così bello ad un costo economicamente sostenibile.

Tra l’altro i privati potrebbero essere coinvolti nel finanziamento di queste attività attraverso la predisposizione di un Fondo Comunale di Solidarietà ad esse dedicato. Già oggi abbiamo apprezzato esempi luminosi di generosità, altri sono sicuro che seguirebbero anche in virtù di un meccanismo di rigorosa verificabilità tra la dotazione del Fondo e le attività svolte. Vedere concretamente realizzati, giorno per giorno, i progetti finanziati potrebbe generare un impulso altruistico molto più forte di quello che si dovrebbe mettere in moto con il normale pagamento delle imposte, i cui proventi ed i cui risultati, finiscono invece, inevitabilmente, per confondersi nell'insieme della fiscalità generale. 

 

Concludo dicendo che naturalmente queste proposte non hanno alcuna pretesa di esclusività; ad esse se ne possono aggiungere altre, magari più funzionali ed efficaci. Quella che resta è la convinzione che in questo momento, e nel prossimo futuro, ognuno debba dare il proprio contributo, soprattutto se si intende approfondire il tentativo di dirigersi verso un modello turistico nuovo e per tanti aspetti diverso da quello cui eravamo abituati.

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