Quando gli antropologi e i sociologi analizzano il fenomeno migratorio del sud Italia, non mancano di mettere in evidenza un particolare importante: i meridionali, nel proprio bagaglio, si portano appresso, dovunque e comunque, i riti e i miti di appartenenza. Ripropongono, cioè, sotto altri cieli e in mezzo ad altre realtà umane, le rappresentazioni delle proprie radici etniche e culturali. La processione di S. Antonio, pertanto, la troverete ad Anacapri ma anche a Little Italy e, vedendola lì, avrete la sensazione che il tempo si sia fermato.

Ma anche ad Anacapri, in certo qual modo, ogni 13 giugno il tempo sembra bloccarsi su di un ideale calendario che sospende uomini, cose e fatti in una dimensione atemporale. Il rito viene ripetuto, anno dopo anno, certamente con molte varianti, ma in fondo sempre uguale a sé, in una serie di situazioni, comportamenti, gestualità che assumono il carattere della determinatezza.

In questo senso, per una sorta di fenomeno opposto, avviene anche che la festa di S. Antonio svolga una funzione particolare: quella di scandire il trascorrere degli anni. Accade, cioè, che il popolo si ritrovi all'appuntamento del 13 giugno con qualcosa di mutato nel proprio seno: un bambino in più, che l’anno precedente costituiva solo un progetto o un desiderio; un nuovo membro familiare, giacché si è sposato un figlio o una figlia. O qualcuno in meno, perché partito per l'estero o perché se n'è andato via per sempre. Ed ecco che, in quest'ultimo caso, S. Antonio viene a suscitare una folla di ricordi, rievocando un mondo di emozioni. Tu assisti al suo passaggio - lento, ieratico, giallo di ginestre - e senti il vuoto accanto al tuo braccio perché lì, l’anno prima, c'era un «lui» o una «lei» che ora non c'è più.

E mentre le spalle della statua si allontanano, seguite dai fedeli, si alza improvvisa la musica della banda a lacerare, col suo ritmo antico, il silenzioso, sommesso pregare delle donne e degli uomini. La commozione si fa più intensa e capisci solo allora perché un rito possiede l’enorme capacità di aggregare le persone in nome della comune appartenenza. Ho visto gente piangere per laica commozione o per religiosa devozione in modo più o meno manifesto.

Mi è rimasta impressa nel ricordo l’immagine di un'anziana donna, da poco vedova, che assisteva al passaggio della processione davanti all'imbocco di via Cedrangolo. Il senso della solitudine era scritto sul suo viso rugoso e sulle spalle ricurve. Quando la statua le passò davanti, lei, sopraffatta da una commozione divenuta insostenibile, scoppiò in lacrime e s'inoltrò in fretta nel vicoletto, a testa bassa, per sfuggire a quel rinnovato dolore.

Di un'altra vecchietta mi è stato riferito un curioso episodio che testimonia la profondità di una devozione capace, addirittura, di risvegliare un'intelligenza sopita. La donna giaceva a letto perché colpita più volte da ictus cerebrale, al punto da possedere, ormai, poca lucidità di mente. A un tratto, il fragore dei botti che salutano il rientro della statua in chiesa scuote il suo torpore. Lei, che nell'arco di un'intera vita ha contribuito a offrire la «batteria» dei fuochi, comprende che in quel momento la processione sta passando per Le Boffe, il suo quartiere. Con gli occhi umidi di pianto, si rivolge al marito e lo prega di recarsi, lui che può, a «vedere» il santo.

Questa forma d'amore così colma di fiducia e così densa di sincerità trova rappresentazioni e misure che superano la fede nello stesso Dio. Ho percepito spesso, nei gesti di certe anziane donne, una strana ansia febbrile, come se affidassero al santo intimi messaggi rivolti chissà a chi perché giungano chissà dove. E sembra stabilirsi, in quel bacio buttato sulla punta delle dita, una sorta di feeling particolare che tiene legate quelle donne al «loro» patrono, escludendo per un po' tutti gli altri.

Si spiega così, per esempio, la puntualità con cui Mariannina «'a Tramuntana» infilava, tra le connessure delle pietre dei muri di via Catena, ramoscelli di ginestra per rendere più bello il percorso della processione. Ed era sempre lei a suonare le campane, gelosa di quell'impegno di cui andava fiera. Figure scomparse di cui quasi nessuno ha raccolto l'eredità.

Ma un antico segno di genuina istintività contadina lo si può cogliere ancora oggi su pochi visi che tradiscono l'origine rurale della donna «ciammurra». In tanti ricordiamo Flora «’a Gaitana», la cui calma serenità ed estrema naturalezza costituivano gli ultimi segni di un’ormai introvabile tipologia umana.

La festa di S. Antonio, allora, può aiutarci a ricostruire il nostro passato? Può essere la colonna sonora al cui ritmo si snoda il percorso storico della nostra comunità? Sì, se andiamo a leggere cosa hanno pensato e scritto di questo rito altri prima di noi. Oppure se andiamo a individuare, nelle fotografie del passato, i particolari che il tempo fissa indelebilmente sui volti, negli abiti, nei comportamenti, negli oggetti.

Se sfogliamo l’album delle foto relative alla festa, possiamo notare come sono cambiate le fogge dei vestiti; come si sono trasformati i balconi, le terrazze, i cortili; come sono state diversamente disposte e adornate le vie; come veniva ripetuto il rituale del Bambinello che, fatto scorrere lungo un filo volante, andava a incontrare il santo. E poi, tra coloro che seguivano la processione o che assistevano al suo passaggio, si possono riconoscere persone e personaggi che sono vissuti qui, lasciando memoria della propria esistenza: amministratori, mastri di festa, preti, chierici, i bambini della prima Comunione, semplici fedeli. Tornano, da quelle foto, a parlarci di un'Anacapri che non c'è più, inesorabilmente sottratta al suo fascino di villaggio agricolo e proiettata nella dimensione turistico-commerciale-mondana. Dove, però, viene ancora consumato il piccolo rito del vestito nuovo.

L'usanza, in verità, ha perso parte del rigore di una volta, ma si può ancora notare come molti Anacapresi, in special modo le ragazze, indossino l'abito comprato «per S. Antonio». Fino a non molto tempo fa, le donne ricorrevano alle sarte, che trascorrevano un paio di mesi in modo convulso: cucendo, provando, ricucendo, riprovando. Sembrava che il tempo fosse più lesto di loro e volesse sfidarle a una gara impossibile. Ma, al 13 giugno, sia le sarte sia le clienti arrivavano puntuali con il loro bel vestito che, essendo il primo della stagione estiva, era doverosamente leggero e colorato. Oggi c'è ancora qualche sarta che, secondo la vecchia usanza, prepara l'abito «per S. Antonio», dimostrando che il suo prodotto è superiore a quello della moda pronta. In questo senso, dunque, anche Maria, Angelina, Anna, Marinella e le altre contribuiscono a costruire, nel proprio piccolo, la storia di Anacapri.

Storia nella quale rientra - e con molto peso - il rituale delle bancarelle. Sempre uguali, sempre le stesse, con la medesima merce:scarpe, giocattoli, pesciolini rossi, stoffe, oggetti in vimini, il tirassegno. Ma ci si «deve» andare. Si deve passeggiare sgranocchiando noccioline, castagne «del prete», lupini.

La festa ci offre l’ occasione di rivisitare i quartieri più caratteristici, come quello delle Boffe, forse il più bello del centro storico un po' trascurato. Tra le bianche casette e le palme si possono avvertire i profumi delle glicini e dei gerani che fanno i vanitosi sui balconi. Un tempo vi si esponevano bandiere, coperte ricamate, arazzi. Oggi sono adornati solo di vasi traboccanti di fiori variopinti e di bougainvillee che si arrampicano sulle colonne e sui pergolati. Ma lungo tutto il percorso della processione numerose persone, appoggiate ai parapetti bianchi di calce o alle ringhiere di ferro battuto, osservano il viavai sottostante. Dai balconi piovono i petali quando passa il santo in processione. Scendono lievi e profumati sul capo della statua e dei fedeli, che aspetteranno di uscire dalla chiesa per scrollarsi dai capelli i fiori di ginestre, gerani e rose.


Gli stranieri, sempre attenti a cogliere i segni più profondi e caratteristici della nostra cultura, guardano e fotografano, imprimendo, sulla pellicola e nella memoria, i particolari di un folclore sconosciuto; alcuni di essi ci hanno lasciato bellissime pagine in cui descrivono i dettagli della festa e le emozioni provate. Fatta eccezione per le naturali differenze cronologiche, tutti dimostrano d'aver colto quasi allo stesso modo l'atmosfera e le sensazioni che gravitano nel paese in quell'occasione. Dai loro racconti emerge la realtà di un Sud bianco di case e colorato nei costumi e nelle tradizioni; risalta un'umanità variegata che vive un proprio ruolo individuale (le Figlie di Maria, i monacelli, i confratelli, i suonatori, i fuochisti...), ma che confluisce, poi, in una coralità indistinta nel momento in cui va a costituire il «corpo» della processione. Qualcuno di loro la definisce come una delle più belle del sud Italia. Qualcun altro, addirittura, avendo colto lo spirito di quella secolare rivalità che contrapponeva le popolazioni di Capri e Anacapri, delinea le ripercussioni che le feste patronali provocavano sugli umori degli isolani.

È il caso di Compton Mackenzie che, nella sua autobiografia, ricorda: «C'era una continua lamentela da parte degli Anacapresi perché i loro preti erano costretti a prendere parte ai festeggiamenti di Capri, mentre in occasione della loro festa in onore di S. Antonio il clero di Capri era esonerato da tale obbligo. L'anno precedente, il 13 giugno 1912 era piovuto e la pittura era colata dal volto di S. Antonio, tra il piacere sarcastico dei capresi che avevano assistito alla scena. Proprio il 14 maggio di quest'anno, mentre la processione di S. Costanzo era a metà strada per arrivare al luogo del suo riposo, una burrasca di colore grigio attraversò il cielo azzurro lungo il golfo di Napoli e si abbatté su Capri, bagnando dalla testa ai piedi tutto il corteo. Le candele si spensero; le manciate di fiori di ginestra erano inzuppate d'acqua. Il busto d'argento del santo cominciò a ondeggiare, poiché i portantini cominciarono a correre al trotto. Due Anacapresi osservarono il disastro con una smorfia di trionfo. "Ecco, - disse uno di essi - nostro padre sant'Antonio ha dato una buona pugnalata a quel porco di san Costanzo''. Gli sberleffi dei capresi dell'anno precedente all'indirizzo del santo, la cui pittura si era sciolta, erano stati così vendicati».

L'episodio, al di là della sua reale consistenza, costituisce un altro tassello della nostra storia, almeno per quanto riguarda gli umori e i sentimenti del popolo, il quale, in questo modo, costruisce la propria memoria collettiva e ritrova, intatta, la propria peculiarità. Il che viene a spiegare il motivo per cui ci si tiene molto a mantenere vivo il rituale della festa: S. Antonio costituisce un frammento della storia anacaprese ed è giusto che occupi un ruolo importante e ben determinato nel processo di questa cultura che associa, a quella prettamente cattolica, anche una componente folcloristica.

Della festa di S. Antonio, comunque, desidero mettere in rilievo un particolare momento che non tutti conoscono perché meno «pubblico» e riservato ai fedeli più affezionati. È il momento che precede la ricollocazione della statua nella sacrestia. Mentre la popolazione consuma gli ultimi scampoli della giornata chiacchierando; mentre i bambini si rincorrono con il loro bravo palloncino legato al polso; mentre il complesso musicale accorda gli strumenti in attesa dell'esibizione, all'interno della chiesa si attarda un gruppo di persone decise a seguire il «loro» santo fino all'ultimo. Sono giovani, donne, uomini, ma soprattutto anziani. Si fanno tutti intorno alla statua e vi pongono sopra una mano, a lungo, per qualche minuto. Molti raccolgono un fiore, se lo stringono al petto: lo terranno per un po', come ricordo. Numerosi i baci che le mani raccolgono dalle labbra e depositano sul saio o sulle mani del santo e sul Bambino che ha in braccio. Gli sguardi sostano su quel volto per un tempo che appare veramente eccessivo. Sono, questi, gli sguardi dei più anziani che sembrano chiedere: “Chissà se ci sarò l’anno prossimo!”. La commozione prende anche il laico perché, al di là di questo rituale religioso, emerge il senso della vita che lotta comunque contro il tempo, nelle sue scansioni, di qualsivoglia genere siano. Ed ecco che i mastri di festa si avvicinano alla statua, la sollevano dal piedistallo, la trasportano nella sacrestia, seguiti dalla piccola processione dei fedeli. Si eleva una preghiera e un inno corale (O dei miracoli) di nuovo si lanciano baci e pensieri affettuosi e tristi al santo, il quale viene deposto, con grande cautela e tenerezza, nel suo alloggio di legno che verrà chiuso a chiave. Non meravigli osservare che tutti i fedeli, lasciando la sacrestia, hanno gli occhi lucidi; alcuni, senza pudore, se li vanno asciugando con fazzoletti ormai zuppi.

Ecco perché ho la sensazione che un po' tutti commisurino la propria esistenza a questo appuntamento, cui non si vorrebbe mai mancare.

* L'articolo, tratto da "La festa di sant'Antonio ad Anacapri", edizione Piccolo Parnaso, a cura di Giovanni Schettino, 1996, è stato riveduto dalla Prof.ssa Pane perché si sentissero un po' meno gli ultimi venti anni posatisi sul saio di Sant'Antonio. Dobbiamo le foto alla gentile concessione di Raffaele "Lello" Mastroianni.

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