Il referendum abrogativo è lo strumento giuridico più efficace che la Costituzione mette nelle mani dei cittadini.
Esso permette agli elettori di abrogare una intera legge o una sua parte.
O, perfino, di creare vere e proprie nuove norme.
Basta togliere alcune parole dalla disposizione di una legge già esistente e si crea un testo con significato profondamente diverso.
La storia italiana ci racconta delle grandi conquiste ottenute con il ricorso al referendum abrogativo.
Con il primo referendum del 1974 fu confermata l'introduzione del divorzio, contro i diktat del mondo cattolico.
La sola minaccia del deposito delle firme e dei quesiti in Cassazione costrinse il Parlamento a disciplinare l'aborto, a chiudere i manicomi, a interrogarsi sulla responsabilità civile dei magistrati.
In senso contrario, la consultazione è stata decisiva per tenere saldi i paletti legislativi posti al ricorso alla fecondazione assistita, per mantenere in vigore l'ergastolo, perché non fosse limitata la caccia.
Il Popolo non lo voleva.
O, perlomeno, non era ancora pronto a tali modifiche.

Difatti, il referendum, anche se non conduce a riformare la legge in discussione, rimane uno strumento fondamentale per tastare il polso e misurare la sensibilità della coscienza dell'elettorato  nei riguardi di uno specifico quesito.
L'istituto si riporta, infatti, alle logiche della democrazia diretta in cui, senza l'intermediazione dei loro rappresentanti, i cittadini determinano le decisioni fondamentali del proprio Stato.
E anche se, da oltre duemila anni, la democrazia diretta ha lasciato il passo alla democrazia rappresentativa, il referendum abrogativo rimane uno dei pochi, ultimi baluardi che gli elettori possono innalzare contro scelte del Parlamento che non condividono.
L'incisivo strumento, quindi, va fisiologicamente in conflitto con le logiche e i poteri della democrazia rappresentativa.
Perché deroga al potere rappresentativo elettivo e ed è suo concorrente.
Tanto è vero che la classe politica ha sempre guardato con preoccupazione alla consultazione popolare, considerata una minaccia ai suoi poteri legislativi delegati.
E, infatti, la storia del referendum abrogativo in Italia descrive quest’oscillazione tra le istanze libertarie dei cittadini, ai quali, in ultima analisi, appartiene la sovranità, ed i tentativi del Legislatore di ostacolare, limitare e controllare il malvisto strumento.
Già l'art. 75 della Costituzione sottolinea l'approccio vigile ed impaurito della classe politica nei confronti dell'istituto.
Innanzitutto ne circoscrive l'ambito oggettivo:
                   “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia                                        e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

Ed esclude l'utilizzo della consultazione popolare vincolante in alcune materie, dove emergano questioni alle quali bisogna approcciarsi razionalmente.
Senza alcuna emotività. Senza decisioni di pancia.
Tutelando lo Stato da derive populiste con cui verrebbero e, in effetti, vengono affrontati certi argomenti che mettono in gioco ragioni ritenute più alte di giustizia, di stabilità internazionale e monetaria, di equilibrio fiscale.
Inoltre, che anche i Padri Costituenti guardassero con sospetto allo strumento di democrazia diretta lo si ricava dalla scelta di delegare al legislatore ordinario l'elaborazione delle procedure attuative referendarie.
Consentendo al Parlamento di definire, a proprio piacimento, uno strumento che limita l'attività stessa delle Camere.
Tant'è vero che la legge di attuazione, necessaria per stabilire l'iter della consultazione, sarà promulgata solo nel 1970. Venticinque anni dopo l'elaborazione della Carta Costituzionale,e solo in occasione di una profonda crisi politica e sociale che attraversava l'Italia.
In Parlamento era, infatti, in discussione la legge sul divorzio e l'opposizione ad oltranza dei movimenti cattolici aveva creato una forte spaccatura nel Paese.
Si decise, quindi, per l'approvazione della legge a condizione che fossero parallelamente approntate le norme attuative del referendum e si desse ai cittadini la possibilità di esprimersi sulla opportunità o meno di sciogliere il vincolo matrimoniale.
Nacque così la legge 372/1970 che palesa ulteriormente l'obiettivo della classe politica di limitare gli oggetti ammissibili e l’efficacia dell’istituto partecipativo.
Nello specchietto di seguito sono riportate alcune tra le norme, previste dalla legge procedimentale, che rendono la vita difficile ai promotori e trasformano il cammino verso l’indizione del referendum abrogativo in una corsa ad ostacoli.

LA LEGGE 372/70
I promotori hanno tre mesi per raccogliere e depositare le cinquecentomila firme (art. 28);
Non può essere depositata richiesta di referendum nell'anno anteriore alla scadenza della legislatura ordinaria nè nei sei mesi successivi alla data di convocazione delle elezioni per il Parlamento (art. 31);
La ammissibilità dei quesiti referendari è esaminata  prima dalla Corte di Cassazione che verifica il rispetto degli iter e dei limiti legislativi previsti e, successivamente, dalla Corte Costituzionale che ne valuta, invece, la rispondenza ai limiti tracciati dall'art. 75 della Costituzione e sentenze successive (artt. 32, 33);
Il referendum può essere indetto solamente in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno (art. 34, 1 comma);
Lo scioglimento delle Camere sospende il referendum già indetto: i termini del procedimento riprendono a decorrere da un anno dopo le elezioni (art. 34, 2 comma);

Se, prima della data del referendum, è abrogata la legge cui i quesiti referendari si riferiscono, le operazioni non hanno più corso, purchè la nuova disciplina modifichi i principi ispiratori e i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti.

Se non vi è una ratio profondamente innovativa del regime precedente , il referendum si effettua sulle nuove disposizioni legislative (art. 39).

Iter macchinosi, tempi strettissimi, un doppio sistema di controllo e la ridottissima finestra temporale in cui è ammessa la consultazione rendono, di fatto, ben difficile il ricorso allo strumento.
L'indizione, poi, deve essere lontana nel tempo dalle elezioni nazionali e, in alcuni casi, lo scioglimento delle Camere è stata la soluzione adottata dalle forze politiche per rimandare un referendum particolarmente minaccioso.
L'istituto, inoltre, deve rispettare ulteriori limiti di ammissibilità che discendono dalla struttura stessa del sistema giuridico italiano: cosicché non è ammessa consultazione popolare per abrogare norme di rango costituzionale né norme di diritto dell'Unione Europea, che in uno Stato membro sono automaticamente applicate o devono essere, senza indugio, recepite.
Perfino se in contrasto con gli esiti di un referendum.
Le norme proposte all'attenzione fanno chiaramente leva sull'idea che il potere legislativo parlamentare rimanga preminente rispetto alla volontà degli elettori.

CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 68/1978

"Le Camere conservano la propria permanente potestà legislativa sia per l'intero corso del procedimento referendario sia successivamente alla stessa indizione del referendum abrogativo.
Di conseguenza, il rispetto delle esigenze prospettate dai promotori resta demandato alla sensibilità politica del Parlamento".

D'altronde sarebbe impensabile che al potere legislativo fosse impedito di intervenire tempestivamente di fronte all'insorgere di nuovi bisogni e problemi.
E nascerebbe un assurdo giuridico se gli oggetti delle richieste di referendum fossero attratti nell'esclusiva disponibilità del corpo elettorale.
Perchè l'inesauribilità della funzione legislativa delegata vale sempre.

Sia quando è in corso un referendum e, infatti, in molti casi, il Governo di turno ha dovuto affrontare le questioni referendarie proponendo in Parlamento una legge, ritenuta ormai non più differibile, che si sostituisse alle norme poste sotto la scure del voto popolare.
Sia dopo che il popolo abbia caducato una norma tramite referendum.

      CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 199/2012
"Il Parlamento sarà impossibilitato a disciplinare in maniera identica la materia così come abrogata dalla consultazione popolare "senza che si sia determinato, successivamente all'abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.

E' comunque necessaria un’attenta valutazione circa l'opportunità politica della reintroduzione della normativa abrogata”.

Nelle pieghe della legge e delle sentenze successive si può, infatti, scorgere la facoltà implicita degli eletti di sovvertire gli esiti del referendum.
Si veda il testo della sentenza n. 199/12.
Nonostante venga chiarito che il Parlamento sarà vincolato all'esito abrogativo del referendum, il testo si presta ad interpretazioni.
Secondo una parte di dottrina, la formula “mutamento del quadro politico” potrebbe essere tradotta come nuove elezioni politiche.
E le leggi vanno interpretate. Sempre.
E chi fa le leggi, avrà sempre buon gioco per piegarle ai propri scopi e asservirsene.
Ciò detto, nonostante i limiti legislativi che incontra l'istituto, la consultazione popolare è stata, in varie occasioni, il grimaldello che ha scardinato un sistema giuridico conservatore, ponendosi in contrasto con una classe politica generalmente reazionaria.
In occasione di referendum abrogativi, questioni etiche e battaglie civili sono state portate al centro del dibattito pubblico ed imposte all'agenda politica in quanto problemi davvero sentiti dalle coscienze degli italiani.
Rafforzando la convinzione che le insostituibili funzioni referendarie di pungolo per la classe politica e di strumento che garantisce la libertà dei cittadini di fronte a leggi che non vogliono e a derive autoritarie, vadano, sempre e comunque, difese dagli elettori.
Al di là della posizione sugli specifici quesiti proposti.

Anche solamente per tutelare le logiche di garanzia dei cittadini e bilanciamento dei poteri che, nonostante tutto, sono sottese all'istituto referendario.
E invece un dato parla chiaro e cozza contro l'idea di uno strumento di contropotere affidato al popolo.

Dal 1997 sono stati indetti sette referendum e solo nel 2011 si è raggiunto il quorum.
Che spesso non è stato nemmeno lontanamente sfiorato.
Le cause sono molteplici: un diffuso astensionismo, che cresce ad ogni tornata elettorale e quesiti che spesso propongono ai cittadini questioni tecniche che, per molti, sono poco interessanti e difficilmente comprensibili.
A questi fattori, poi, si aggiunge la squallida prassi per cui, da anni, i partiti contrari all'accoglimento del quesito proposto puntano sul non raggiungimento della soglia del quorum.
Facendo propaganda per il non voto e il tifo per urne deserte.
Ma, se il partito del non voto fa una scelta che, seppur discutibile, è consapevole, l'inaspettato alleato che la classe degli eletti ha trovato sulle barricate alzate contro le istanze referendarie è il cittadino disinteressato.
Quella percentuale crescente di elettori che, forse a ragione, semplicemente non va a votare.

Essi, con colpevole inconsapevolezza, collaborano con i politici nel rendere sempre più spuntata un’arma, tra le poche che rimangono al cittadino per esprimere il suo vincolante parere.

Il referendum è, invece, anche un banco di prova per gli elettori.

Essi sono chiamati a sostituirsi al legislatore, assecondando, una volta tanto, le istanze sempre più pressanti di partecipazione democratica alle decisioni dello Stato.

Ed i cittadini hanno il dovere civico di prendere sul serio questa responsabilità informandosi ed informando.

Cercando di capire di cosa si parla, di selezionare le fonti di informazione, di formarsi un’opinione che non si fermi alla prima banale impressione, di affrontare con equilibrio e razionalità il quesito, tentando di immaginarne le prospettive di lungo periodo.

Facendo sì che i gettonatissimi mantra della sovranità al popolo e del potere ai cittadini non rimangano solo vuota retorica.

Perchè se il referendum abrogativo diventa uno strumento sempre meno incisivo, chi è nella stanza dei bottoni ne guadagna, la democrazia, di certo, no.

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