10.03.2021

Caro diario, oggi mi sento un po’ come quando l’anno vecchio sta finendo...

Sai? quando ci si volta a guardare l’anno che è passato e si tirano le somme. Oggi è trascorso un anno dal primo giorno di lockdown della nostra vita. Lockdown… una parola che ci sembrava tanto strana un anno fa, mentre oggi fa parte del nostro lessico quotidiano.

Non saprei neanche da dove partire, non è facile mettere insieme i pensieri. È stata lunga, è stato strano, è stato improvviso. La nostra vita scorreva come al solito, veloce, tra scadenze e cose da fare, regolare e sicura come sempre; ma poi, tutto ad un tratto, accadde l’impensabile: una pandemia, nel 2020. E chi se lo aspettava! E così ogni certezza non c’era più, ogni affetto era lontano, ogni settore dello Stato – assopito da tempo – era diventato protagonista, dalla sanità all’economia.

Siamo stati testimoni di un accadimento storico: nel 2020 il mondo è stato messo in ginocchio da un virus letale.

Appena ci fu l’annuncio della pandemia, un anno fa, ci dissero una cosa che non ci saremmo mai aspettati: il mondo doveva fermarsi. E così, improvvisamente, da uomini liberi del nuovo millennio, siamo stati protagonisti di una sorta di Decamerone, chiusi dentro, con un nemico invisibile fuori le mura. Per la prima volta nella nostra vita non c’erano più incontri, scadenze, fretta. Non si doveva andare da nessuna parte. #iorestoacasa era il motto di tutti. E così, il lavoro è stato sostituito dal tempo libero, gli abiti da lavoro si sono trasformati in tute e pigiami, le palestre rimpiazzate dagli allenamenti in casa, gli aperitivi con gli amici da rimpatriate su Skype, il sabato sera dalla pizza fatta in casa, la scuola dalla DAD. 

In quarantena, quasi tutti, avevamo picchi d’umore che neanche in gravidanza. Gioivi per la pizza che stava lievitando, vivevi di angoscia per quasi tutta la giornata, ti commuovevi davanti alla pubblicità della Barilla che parlava di un “Italia che ancora una volta resiste” e ti arrabbiavi guardando dalla finestra un bellissimo cielo primaverile, che ti “sfotteva” mentre eri chiuso in casa. E la settimana era scandita dalle apparizioni in TV del Presidente Conte che, ogni santa volta, aggiungeva una nuova limitazione alla nostra quotidianità.

Caro diario, ti dicevo, la vita è cambiata.  È cambiata per ogni famiglia, per ogni categoria di lavoratore, per ogni persona, di qualsiasi età. Addirittura a Napoli, la città del calore umano per eccellenza, in strada si registrava una diffidenza verso l’altro (quale probabile portatore di virus letale) che manco nell’estremo Nord. Ed era strano: la gente si spostava quando le passavi accanto e ti guardava davvero male se osavi tossire. E ancora oggi, ad un anno dall’inizio di tutto questo, non ci si abbraccia più, non ci si presenta più con la mano e al posto dei due baci di commiato ci si saluta con un pugno chiuso, stile rapper.

E gli occhi, quanti occhi che si vedono in giro. Quegli occhi che fino ad un mese prima della pandemia erano una mera componente del viso, sono diventati la cosa più bella di una persona, quella che guardi e che ti trasmette le emozioni. Non più sorrisi, non più espressioni facciali, solo occhi: grandi, a mandorla, tristi, cordiali, curiosi. Si vedono in giro occhi di anziani soli, di genitori in apprensione, di bambini spiazzati, di padri di famiglia in difficoltà, di negozianti che fanno il possibile per andare avanti. Gli occhi sono, oggi, il nostro veicolo di trasmissione dei pensieri: nascosti dalla mascherina si fa un cenno con gli occhi, e tanto basta.

Ah e poi, eravamo diventati tutti più buoni e non si davano più gli affetti per scontato. Fino ad un anno fa, vedersi con altre persone, che fossero amici, familiari, compagni di vita, era normale e invece abbiamo scoperto che scontato non è. E forse ci ha fatto bene.

C’è stato un tempo in cui pure il tuo vicino di merda, sai quello che butta sempre l’umido nei giorni sbagliati o quello che fa pisciare il cane davanti alla tua porta, proprio lui - anzi persino lui - era diventato un punto di riferimento nella tua vita da “recluso”. Nella prima quarantena, infatti, sembrava che l’Italia intera abitasse insieme: erano tutti amici, tutti fratelli uniti dalla stessa sventura. Pensa che c’era un ragazzo di nemmeno vent’anni che ha riempito il silenzio di una Piazza Navona deserta con la musica di Morricone. E noi eravamo in casa ad ascoltarlo, come se potessimo essere lì, con lui, a dimenticarci dei nostri problemi.  Per sentirci vicini ci si dava appuntamento ad un determinato orario, per cantare insieme dai balconi. Eravamo tutti una grande famiglia; pensa che in un paesino della Baviera, Bamberg, per mostrare solidarietà all’Italia, hanno cantato e suonato Bella Ciao. “Per unirci al vostro coro e cantare la canzone di libertà per eccellenza”, dissero. E lo fecero, dai balconi, dalle finestre, sui tetti. Era bellissimo, ma bellissimo veramente.

E si dicevano cose carine, si facevano gesti nobili, ci si sosteneva l’un l'altro, come mai in trent’anni avevo visto.

Sembrava un mondo nuovo, portatore di un approccio diverso verso l’altro.

E la natura. Diario, non sai che schiaffo in faccia ci ha dato la natura. Nei mesi in cui eravamo in lockdown, addirittura il fiume Sarno era limpido. La natura stava dando un segnale forte: si era riappropriata dei propri spazi. E sul web circolavano video di animali che vagavano rilassati per paesini, delfini nei porti, specie in via di estinzione che uscivano allo scoperto, senza aver paura dell’uomo. Una bellezza inenarrabile. E ce ne siamo accorti tutti.

Così, a maggio, credevamo che, dopo questa presa di coscienza, le cose sarebbero cambiate, avremmo rispettato di più la natura, avremmo cambiato atteggiamento verso l’ambiente. E invece?

Invece la paura fa 90 e, quando si è attenuata, tutto è ripreso come prima. Da giugno il Sarno era di nuovo marrone, l’inquinamento era tornato e gli animali erano andati via.

 Dopo il primo lockdown anche la gente ha iniziato ad essere stufa: delle rassicurazioni, di non avere più interazioni sociali, di un governo che interviene sempre ad hoc e mai secondo una visione di insieme, di chiudere la propria attività senza avere un valido ristoro. Oggi siamo tutti arrabbiati, con la pandemia, con De Luca, con i banchi con le rotelle, con lo Stato, con Conte, con i vaccini, con l’Asl … E tutti abbiamo bisogno di urlarlo o, più semplicemente, di scriverlo in commenti Facebook; il che magari non risolve ma aiuta.  Siamo arrabbiati perché qualcuno deve ridarci quello che abbiamo perso in questo anno: sicurezze, prima di tutto, ma anche soldi. Gran parte dei cittadini si sono trovati ad una soglia di povertà che solo nel dopoguerra. E, giustamente, lo vogliono dallo Stato… che i soldi non ce li aveva prima, non ce li ha neanche adesso.  Vogliamo che lo Stato risolva tutti i problemi che ha portato questo nuovo virus e che lo faccia subito. E lo colpevolizziamo, quasi come se ci avesse costretto alla pandemia.  Così la paura di un tempo ha lasciato il passo al malcontento, perché dopo un anno la situazione non è cambiata molto e la colpa deve essere per forza di chi è ai piani alti e gestisce la crisi: quel qualcuno non è mai capace di fare la cosa giusta.

Ah si, perché altra cosa che non sai, caro diario, è che qui siamo diventati tutti “masti”. Abbiamo grandi saperi su come va amministrato uno stato durante una pandemia. Quotidianamente parliamo di cose che, fino ad un anno fa, non sapevamo esistessero. Abbiamo conoscenze politiche, economiche, mediche e sanitarie; abbiamo idee su come riaprire in sicurezza le scuole, le palestre e le discoteche. E cerchiamo di dirlo a Facebook eh, ma nessuno ci ascolta. Abbiamo anche teorie sull’efficacia dei vaccini, alcuni dicono che ti impiantano nel cervello il 5G. Capisci a che punto stiamo arrivando? Quanto siamo provati? Qua ci chiudono, ci aprono, cambiano il nostro colore. E noi ci arrabbiamo, sempre di più. Della natura non ce ne frega più niente, il prossimo è solo un potenziale portatore di virus, il tuo vicino di casa resta il solito rompicoglioni che non chiude mai il portone di ingresso e di soldi non ce ne sono più. Forse, caro diario, le somme che sto tirando non danno un bilancio troppo positivo. Siamo tornati gli stessi di 13 mesi fa, solo più stanchi, più depressi, più poveri, più egoisti e più arrabbiati.

E niente, da questa disamina pare che in questo difficile anno non abbiamo imparato nulla, io invece una decina di cose le ho imparate, e sono queste:

  1. Gli affetti sono fondamentali, stabili o meno che siano;
  2. Non siamo e non saremo mai capaci di rispettare regole/privazioni;
  3. La Pasqua senza casatiello è triste, ma se segui le istruzioni del generale J.Carlos il casatiello lo puoi fare anche tu;
  4. Questa pandemia ci ha portato a galla tanto amore e allo stesso tempo tanto odio;
  5. Non c’è un’età per rileggere tutti i libri di Harry Potter in due settimane;
  6. In fondo i vicini non sono poi tanto male… quando sono le uniche persone che vedi;
  7. Alcuni film che credevo pallosissimi – tipo Barry Lyndon – in realtà sono dei capolavori;
  8. Cantare a squarciagola avvicina tutti;
  9. L’Italia deserta è di una bellezza incredibile;
  10. La vita è imprevedibile.