Don Massimo Maresca è da una manciata di settimane il nuovo giovane parroco di Anacapri. La capresità, l’età e il modo di fare genuino ed a tratti esplosivo ne fanno un vero AltroParlante. Per questo motivo ci ha fatto davvero piacere intervistarlo in occasione delle festività natalizie e fare con lui il punto sulla situazione della comunità isolana. Scommettiamo che anche se non siete particolarmente bizzuochi troverete di grande interesse quello che ci ha detto.

Cominciamo con una domanda magari un po’ banalotta: come è stato questo ritorno a casa accompagnato però dalla nuova responsabilità parrocchiale?

E’ un’esperienza unica e piuttosto diversa da quello che mi aspettavo, nel senso che la percepisco più come un “venire” che come un ritorno a casa. Se da un lato è tutto un ritrovare volti conosciuti e persone cui ho voluto e voglio bene, dall’altro la vivo proprio come un venire in un posto nuovo, in un altro mondo, in un’altra isola. Il fatto che da quando sono tornato a Capri non sia ancora andato a casa mia è in qualche modo significativo da questo punto di vista.

Quindi ti sembra di vivere più in continuità rispetto alla missione che portavi avanti prima fuori dall’isola che rispetto alla vita che conducevi qui a Capri?

Si, fondamentalmente si.

Nel corso dell’omelia tenuta in occasione della cerimonia del tuo insediamento l’Arcivescovo Alfano parlava della necessità di scelte in qualche modo “profetiche”. Cosa intendeva l’Arcivescovo e come interpreti tu questa necessità?

Credo che una scelta “profetica” sia necessariamente proiettata al domani. Si tratta di fare oggi qualcosa che porterà i suoi frutti domani. E’ in qualche modo come zappare la terra che è per definizione un atto profetico. Colui che zappa la terra si trova a fine giornata solo sudato ed impolverato, non ci sono motivi di immediata soddisfazione, tuttavia sa che quello che fa oggi è necessario, propedeutico a ciò che avverrà domani. Credo allora che oggi ci sia soprattutto bisogno di mettere basi nuove; più che raccogliere i frutti è necessario zappare, dare qualche mossa alla terra che si è magari un po’ indurita. Bisogna dare qualche colpo, non colpi di violenza o di sfogo ma che servano a dare discontinuità pur nel rispetto del lavoro fatto fino ad oggi e di una tradizione che è presente e forte in tutti noi.

Anche perché le scelte proiettate verso il futuro e che magari non rispondono alle logiche del momento esatto in cui si opera, possono anche far paura.

Certamente, ogni novità fa paura perché destabilizza o semplicemente perché non si conosce, però a pensarci bene anche tutte le cose che pensiamo di conoscere sfuggono continuamente al nostro controllo. Di sicuro quello che abbiamo è un oggi che ci viene consegnato e che possiamo vivere bene insieme, però quando le fondamenta sembrano traballare di fronte al cambiamento è solo perché forse queste fondamenta non sono così solide. Quando si cerca di dare un respiro più ampio all’idea di Chiesa o di comunità, come Don Daniele Pollio ha tentato di fare con modi talvolta davvero profetici, si attivano sovrastrutture che sopravvivono malgrado non convincano neppure le stesse persone che le difendono. A volte si mandano avanti delle cose perché si devono mandare avanti, perché sembra brutto fare diversamente. Però c’è proprio una grande differenza tra la religiosità, che è una costruzione umana, e la fede, che è un dono di Dio e che non ti puoi costruire tu. Arrivano dei momenti, e sono quelli i momenti profetici, in cui religiosità e fede si scontrano, perché la fede è libera, dinamica, non ha compromessi. La religiosità invece di compromessi e costruzioni ne può avere tanti. Noi abbiamo certamente bisogno di aspetti di religiosità che ci aiutino a trattenere la fede, ma non dobbiamo dimenticare che la religiosità è solo un mezzo, un contenitore, e che Dio sta invece nella fede che, come l’acqua, fluisce in quel mezzo o contenitore. Questo ci porta a dire che non dobbiamo aver paura della possibilità che la religiosità muti aspetto e forma perché solo di un mezzo si tratta. Troppo spesso per comodità ci fermiamo alla staticità della forma esteriore senza arrivare alla vera sostanza della fede.

Ma in un  momento, come quello storico attuale, di scarsissima presenza di punti fermi e solide certezze anche dal punto di vista politico, la Chiesa come si deve porre?

La Chiesa non può che incoraggiare tutti ad agire per il bene comune, perché si affermi quel senso di tolleranza e di solidarietà verso i propri fratelli che dovrebbe essere alla base di qualsiasi esperienza politica.

Ma oggi, al di la delle questioni politiche, c’è spazio per la Chiesa? Quale può essere il suo ruolo nella società attuale?

Sulla base della mia esperienza io credo che la Chiesa sia oggi l’unica entità in grado di esprimere leadership, perché sono profondamente convinto che il vero leader non è chi ha tutto sotto controllo e tutto può comandare, ma piuttosto oggi come oggi leader è colui che sa mettere in collegamento e dialogo le varie realtà. Colui che sa fare questo è punto di riferimento. Ed oggi la Chiesa è l’unica capace di educare in questo senso. Se anche la singola parrocchia  non si mette alla prova sul dialogo, tanto interno quanto esterno, ha davvero esaurito il suo ruolo.

Tornando alle questioni squisitamente locali: quali sono i tuoi propositi di inizio mandato?

C’è tanto da fare. Tante cose pratiche che vorrei realizzare, ma c’è bisogno prima di tutto di smuovere alcune situazioni facendo modo che un po’ tutti possano vivere bene e in maniera serena. Il primo proposito è certamente raggiungere l’esterno, non tanto chiamare in Chiesa quelli che ne sono lontani, quanto muoverci noi verso l’esterno come anche Papa Francesco dice. Se Giovanni Paolo II diceva: “Aprite le porte a Cristo”, Francesco dice: “Uscite, andate”. Non è più pensabile che basti aprire le porte delle chiese per far avvicinare chi è più lontano, c’è bisogno che noi siamo più dinamici. E allora questo è il mio primo proposito per l’anno nuovo e per il tempo che trascorrerò qui. E’ evidente che anche nelle basi della nostra comunità locale c’è qualche vuoto, qualche problema strutturale che è ben più importante dei problemi della chiesa come edificio e che io cercherò di risolvere con l’aiuto di tutte le componenti parrocchiali.

L’intervista con Don Massimo finisce qui, ci siamo fermati giusto prima degli auguri di Natale perché crediamo che, credenti o no, fareste bene ad ascoltare una delle sue “prediche” durante le festività. In questo modo gli auguri ve li farà di persona e potrete partecipare anche voi, con un piccolo contributo, ai lavori di ristrutturazione della Chiesa di Santa Sofia che è parte della storia e della cultura di tutti noi.

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